12 marzo 2010

Perché la nostra scuola è finita

Ho sempre dichiarato che avrei smesso di insegnare quando mi fossi accorto che non mi divertivo più.

Invece mi ritrovo sulla soglia dei sessant’anni e mi accorgo di fare veramente fatica: la gioia non è scomparsa, ma soffro veramente perché non riconosco più un bilancio positivo tra l’impegno ed il risultato.

Forse un insegnante non dovrebbe mai fermarsi a riflettere sul successo del proprio lavoro. Gli esiti si osservano in modo talvolta sorprendente a distanza di molti anni. Talvolta, proprio dove credevi di avere fallito, scopri a distanza di tempo che il seme gettato ha dato frutti insospettati. Altre volte scopriamo che i fiori più belli che avevamo coltivato sono appassiti nel fango. Proprio come accade con i figli. Questo è il destino degli educatori.

Mi rendo conto che schemi, progetti, unità didattiche, fotocopie, proposte di lavoro… il materiale raccolto attraverso una vita di servizio nella scuola è divenuto inutile. I ragazzi e le ragazze non sono più in grado di utilizzarlo. Non si tratta semplicemente dell’incapacità che deriva dall’incompetenza. La sostanza dei fenomeni oggetto di studio non è mutata. L’oggetto dell’apprendimento non è superato perché obsoleto. Eppure anche i contenuti comunicati con la passione di sempre sembrano scorrere come acqua sul vetro. L’impressione è quella di non riuscire più a comunicare contenuti.

Credo che nulla sia più frustrante per un insegnante che verificare la sterilità del proprio lavoro. Talvolta la presenza dell’insegnante che spiega in classe, e purtroppo non parlo solo di me stesso, appare come un mero accidente privo di efficacia e persino di senso. Certo non intendo generalizzare: ci sono sempre studenti attenti e disponibili. Quello che voglio intendere è che si è andata sempre più estendendo ed intensificando l’indifferenza per qualsiasi attività svolta nell’istituzione scolastica.

Sono convinto che si diventa insegnanti per gioia di condivisione. Nulla può essere profondamente e pienamente appreso se non comunicandolo. Conoscere e capire sono detonatori della cultura. La necessità che scatta imperiosa nell’educatore è quella di far partecipe chi è vicino di ogni scoperta raggiunta ed ogni emozione provata, partendo proprio dai piccoli e dai giovani. Quando questo impulso resta mutilato è una perdita globale. Insegnare è un dono che moltiplica ricchezza: si accresce il sapere e la consapevolezza individuale e collettiva senza che chi ha donato resti privato di qualcosa. Anzi ne rimane arricchito!

Noi insegnanti non possiamo che essere raffinati ristoratori culturali: chef di una cucina in grado di offrire cibi invitanti e prelibati. Quello che non possiamo fare è obbligare i nostri clienti a nutrirsi. Temo che oggi si assista ad una vasta epidemia di anoressia culturale.

Il successo scolastico è divenuto progressivamente meno significativo come strumento di affermazione sociale ed economica. Non esiste nemmeno più una struttura sanzionatoria in grado di contrastare significativamente un rilassamento passivo talvolta sostenuto persino dalle famiglie. Non che ci si possa illudere che un sistema di punizioni possa risultare più efficace di un complesso di incentivi. Semplicemente non esiste più nessuna combinazione di stimoli veramente produttiva in modo assoluto.

Dunque qualcosa nel tradizionale meccanismo di fare scuola deve essersi rotto o consumato al punto di essersi irrimediabilmente sfaldato.

Propongo una risposta: la qualità e la natura della comunicazione sono ormai storicamente alterate.

Un tempo bastava un sapiente uso della parola per ottenere bocche spalancate ed occhi sgranati. Oggi fatichiamo ad ottenere attenzione anche con la fisicità del gesto e con la concreta dimostrazione operativa. Perché una volta funzionava ed ora anche gli sforzi più intensi sembrano così poco produttivi?

Credo che la risposta vada ricercata in una nuova e più flessibile interpretazione di quello che in psicologia si chiamo “meccanismo di identificazione”.

Per spiegare meglio cosa intendo, dovrei forse utilizzare il termine “immedesimazione” o addirittura “traslazione di coscienza”.

L’immedesimazione a cui mi riferisco è una forma di esperienza profonda e per certi versi totalizzante che permette di vivere come proprie situazioni, sensazioni ed emozioni create con arte attraverso media tecnologici dotati di potenzialità espressive.

Proviamo a considerare alcune questioni relative all’evoluzione dell’intrattenimento.

Gli adolescenti, e non solo, sperimentano con abituale pratica quotidiana l’interazione con realtà virtuali offerte da dispositivi come PlayStation e wii.

L’intensità dell’immedesimazione è tale da condurre talvolta alla perdita del senso del tempo ed appunto alla temporanea traslazione della coscienza. In un certo senso si tratta di una autentica alienazione, senza necessariamente assegnare a questo termine connotazioni inappellabilmente negative.

Ciò che desidero osservare è che per momenti più o meno lunghi, con una forza di coinvolgimento più o meno invasiva, resta sospesa la propria percezione “in sé” per lasciare spazio all’indossare una coscienza almeno parzialmente alternativa.

Quando un agente terzo interviene per richiamare alla realtà concreta, si dovrebbe poter istantaneamente percorrere all’inverso il percorso di “risucchio di presenza” che l’assorbimento nella simulazione aveva stabilito.

Questo improvviso richiamo alla realtà può essere percepito, da chi ne resta coinvolto, addirittura come malessere fisico. Dal semplice fastidio credo che si possa giungere fino alla sensazione di nausea, tale da causare reazioni persino violente ed apparentemente ingiustificabili per chi le ha prodotte. Quello che succede in questi casi è forse una forma di strappo, per certi versi doloroso, da una traslazione di coscienza molto più coinvolgente del sogno.

Solitamente la reazione di un adolescente strappato alla playstation è drammaticamente più intensa di quella dello stesso individuo svegliato bruscamente.

L’immedesimazione non è in sé un fenomeno negativo. Anzi è proprio la via maestra attraverso cui, secondo me, viaggia l’apprendimento.

Nel secolo scorso, media tecnologicamente meno raffinati di quelli che attualmente sono comunemente diffusi, offrivano l’opportunità di acquisire conoscenze e provare esperienze per interposta persona. La televisione in bianco e nero prima e quella a colori poi hanno giocato un ruolo spesso determinante nella formazione degli attuali adulti. Il cinema, invece, è sempre stato più avvolgente: un ambiente in cui il buio circostante favorisce la magia del rapimento. Seguire uno spettacolo su uno schermo televisivo non comporta un semplice mutamento di proporzioni nella visione, ma implica una diversa coscienza di presenza ambientale.

Prima ancora era il libro a giocare un ruolo determinante nella costruzione della formazione individuale.

Un modello illuminante di rappresentazione di quanto intendo esprimere è costituito dal libro “la storia infinita”, romanzo fantastico che ebbe poi una trasposizione cinematografica di successo.

Il racconto delinea esattamente ciò che intendo: è possibile vivere altre vite attraverso la traslazione di coscienza. L’arricchimento personale, dal punto di vista culturale in senso esteso, è a portata di chiunque abbia la sensibilità per accoglierlo.

Ancora più indietro nel tempo era la lettura degli affreschi nelle antiche chiese medievali, fiocamente illuminate dalla luce incantata delle candele o dalla delicata illuminazione delle vetrate multicolori.

L’ assuefazione storica ad un livello sempre più definito di riproposizione ed interpretazione della realtà ha condotto all’affermazione di media espressivi che lasciano sempre meno margine all’immaginazione individuale.

Il cinema tridimensionale in B/N risale addirittura agli Anni Venti. Negli Anni Cinquanta l’impiego degli occhiali polarizzati rese possibile la visione a colori. Perché alle soglie del Ventunesimo Secolo, il cinema e con esso la televisione e la fotografia, si avviano gradualmente ma irresistibilmente a diventare 3-D? La mia ipotesi è che l’utenza tende a domandare un progressivo innalzamento del livello tecnologico dei media al fine di soddisfare un bisogno sempre più sofisticato di traslazione di coscienza.

E la scuola?

La scuola è rimasta ferma a confidare nel valore della voce, tutt’al più nel supporto della comunicazione scritta ed illustrata su supporto cartaceo.

Certamente esistono ancora oggi ragazze e ragazzi che riescono a perdersi nelle gradazioni marroni e verdi delle mappe di un atlante, capaci di sognare percorsi, laghi, foreste e mari evocati da nomi ancora sconosciuti. Sono sognatori abituati fin da piccoli ad accarezzare stupendi libri per bambini che avrebbero strappato gridolini di gioia a noi vecchi docenti, fanciulli del secolo scorso, pronti alla meraviglia di povere cose. Sono bambini fortunati, cresciuti in famiglie in cui si conosce e si pratica ancora l’arte dello stupore, del racconto e dell’attenzione. Quante sono le famiglie in cui si coltiva ancora con convinzione il piacere consapevole della cultura, della parola e del segno?

Eccoci quindi nel nuovo millennio ad insegnare in una scuola che non è più luogo elettivo di apprendimento e di progresso sociale. I nostri allievi hanno esplorato il corpo umano, sono saliti sulle montagne del Nepal, hanno esplorato giungle e savane, cavalcato e navigato. Hanno persino vissuto morte ed amore innumerevoli volte. Hanno visto fiori, animali e vulcani. Tutto attraverso un livello di presenza impensabile per le generazioni precedenti. Anche il loro livello di interazione collettiva è quasi incomprensibile per un anziano. La loro è la generazione “Digital Native”. Su questo territorio la scuola ha storicamente concluso il suo ciclo, almeno nella forma in cui l’abbiamo finora conosciuta.

Recentemente mi accade di osservare come on-line, cioè presenti sul web in social network, allievi che in quel preciso momento sono in classe. Immagino che dovrebbero seguire una lezione.

Navigano.

Per loro l’insegnante in quel momento non esiste.

Sono proiettati nella rete.

Eppure una speranza per la scuola c’è: dobbiamo ripensare qualità e modalità della comunicazione. La scuola che abbiamo sperimentato non c’è più. Non servirà rimpiangerla.

I bambini sono cambiati.

Dobbiamo cambiare anche noi.

3 commenti:

jasna ha detto...

L'ho letto tutto d'un fiato... e credo ci sia molto su cui riflettere. soprattutto per chi come te dovrà proseguire la strada dell'insegnamento. Ci vuole coraggio a prendere coscienza di ciò che si è fatto e di ciò che si dovrà fare, ci vuole altrettanto coraggio a dire che le cose devono cambiare se si vuole trasmettere ai nostri giovani qualcosa di più del nulla. Grazie prof.

educatore ha detto...

@ Jasna
Grazie. Appena trovo il tempo, scrivo la seconda parte. Ho alcune idee per il futuro della scuola e qualche proposta. Educazione e istruzione debbono rinnovarsi per rispondere alle nuove sfide.

Renata ha detto...

Ho letto ho trascritto per rileggerlo più e più volte e trovo in ogni parola l'amore per l'insegnamento e l'amore per i giovani. E trascrivo la frase che più mi ha catturatoi, la dove dici :

"Noi insegnanti non possiamo che essere raffinati ristoratori culturali: chef di una cucina in grado di offrire cibi invitanti e prelibati. Quello che non possiamo fare è obbligare i nostri clienti a nutrirsi. Temo che oggi si assista ad una vasta epidemia di anoressia culturale."

Attendo con amsiosa speranza di leggere le proposte promesse per la soluzione del grave problema.

E intanto un altro sincero, appassionato GRAZIE PROF: